Esploso nel settembre 2015, il Dieselgate – un vero e proprio shock per l’intero settore dell’automotive – non ha coinvolto solo il gruppo Volkswagen, ma ha generato un effetto domino che ha cambiato per sempre l’industria dell’auto.

18 settembre 2015: l’EPA (Enviromental Protection Agency), l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente, annunciò che la Volkswagen aveva violato la Clean Air Act, la legge federale  che regolamenta le emissioni e la qualità dell’aria.
Secondo l’agenzia, il colosso tedesco aveva intenzionalmente progettato i motori diesel TDI (Turbocharged Direct Injection) per eludere i test sulle emissioni di ossidi di azoto (NOx). In sostanza, un particolare software installato sulla centralina consentiva di ridurre la produzione di sostanze inquinanti mentre l’auto era sottoposta a test di omologazione. In tal modo, le vetture risultavano sempre conformi alla legislazione vigente. Pur violandola, secondo gli analisti, costantemente.

Il contesto in cui esplose il Dieselgate

Tutto è iniziato nel 2013, quando l’International Council on Clean Trasportation (ICCT), un’organizzazione no-profit, commissionò all’Università della Virginia Occidentale dei test sulle automobili più vendute negli Stati Uniti. Con particolare riferimento ai veicoli diesel.
I ricercatori americani effettuarono test su strada, utilizzando un sistema giapponese che serviva a monitorare le emissioni dei veicoli. I risultati furono sconcertanti: 2 veicoli su 3, appartenenti al noto marchio Volkswagen violavano sistematicamente i limiti di ossido di azoto.
Nel maggio 2014, l’ICCT pubblicò i risultati degli studi effettuati ponendoli all’attenzione del California Air Resources Board (CARB) e della già citata agenzia EPA, che – nel settembre 2015 – denunciò pubblicamente lo scandalo della Volkswagen.

La notizia, chiaramente, ebbe un’eco enorme. Sebbene il contesto in cui maturò non sembrava presagire un deciso cambio di rotta del settore dell’automotive. Del resto, in passato, c’erano già stati altri “incidenti”: alcune auto giapponesi, ad esempio, avevano manifestato un malfunzionamento del pedale dell’acceleratore che, in alcuni casi, aveva portato persino ad incidenti mortali. Oppure, un modello di automobile americano poteva incendiarsi in caso di piccoli malfunzionamenti.

Per cui, il primo commento al Volkswagen-Gate fu piuttosto tranquillizzante. Ma non servì a placare quel rinnovato sentimento ambientalista che sembrava divampato, senza freni, negli Usa e non solo. Dal momento che altre agenzie indipendenti, a livello internazionale, avevano iniziato a indagare sulle auto diesel commercializzate dal colosso tedesco. Per la prima volta nella storia più recente il rapporto tra mobilità e qualità dell’aria sembrava non penalizzare la seconda. Una piccola rivoluzione, non certo priva di conseguenze.

Le conseguenze dello “scandalo della Volkswagen”

Il 22 settembre 2015 la Volkswagen dichiarò che i veicoli sottoposti a defeat device erano 11 milioni in tutto il mondo. Nel frattempo, il Dipartimento di giustizia americano aveva già avviato un’indagine penale a carico del gruppo. Il titolo in borsa della Volkswagen – e di molte altre aziende automobilistiche europee – crollò. E Martin Winterkom, amministratore delegato del gruppo tedesco, rassegnò le proprie dimissioni.

Sull’onda del Dieselgate in Europa si moltiplicarono le richieste di controlli e verifiche. Risultarono coinvolti 8 milioni e mezzo di veicoli omologati Euro 5. Tra questi, 5 milioni erano a marchio Volkswagen. Cui vanno aggiunte più di 2 milioni di auto Audi, oltre 1 milione di Skoda e circa 700mila Seat.

Il doppio filone Dieselgate: cosa accadde negli Usa e in Europa

Il percorso del processo Dieselgate prese due strade diverse. Nel Vecchio Continente, i richiami vennero approvati in meno di due mesi dall’autorità tedesca dei trasporti. E divennero ben presto operativi nel resto d’Europa. Per i motori 1.2 e 2.0 TDI della Volkswagen era previsto solo un intervento sul software, mentre per i motori 1.6 fu necessaria l’installazione del flow transformer: un filtro aggiuntivo da collocare sul condotto dell’aria.
A Braunschweig, la città tedesca il cui tribunale si era già attivato aprendo un’inchiesta per evasione fiscale, confluirono circa 380 cause intentate da proprietari e investitori.

Il Dipartimento di giustizia americano, invece, fece pervenire una richiesta di risarcimento che si aggirava intorno ai 14,7 miliardi di dollari, di cui 10 miliardi riservati ai 475mila automobilisti che avevano acquistato le autovetture incriminate. La Volkswagen fu inoltre condannata a versare 1,8 miliardi di dollari in un fondo destinato alla diffusione della mobilità elettrica. Mentre altri 2,4 miliardi furono destinati alla mitigazione dei danni ambientali provocati dal Dieselgate.

Il Dieselgate e l’effetto domino sugli altri costruttori automobilistici europei

Esploso il Dieselgate, l’attenzione si spostò sugli altri costruttori automobilistici europei. Nel gennaio 2017, l’EPA contestò la violazione del famigerato Cleai Air Act anche a FCA, per il presunto uso di un software illegale su alcuni modelli di Jeep Grand Cheerokee e Dodge Ram 1500.

Nello stesso mese, la procura di Parigi aprì un fascicolo d’indagine su alcuni veicoli a marchio Renault, lasciando intendere che, nell’inchiesta, sarebbero state coinvolte anche altre aziende automobilistiche. Nel marzo 2017, i pubblici ministeri di Stoccarda indagarono su alcuni dipendenti del gruppo Daimler, sospettati di aver manipolato le emissioni di alcune auto diesel durante i test di omologazione.

Infine, nel maggio del 2017 intervenne anche l’Unione Europea, che avviò una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, criticando, nello specifico, la posizione del Governo sui modelli FCA oggetto d’indagine. Anche l’Audi finì per essere effettivamente coinvolta nello scandalo Dieselgate: un suo ex ingegnere, arrestato su mandato statunitense, avrebbe ammesso di aver collaborato nello sviluppo di alcuni software impiegati sistematicamente per truccare i dati sulle emissioni inquinanti. Ormai, l’evoluzione dell’automobilismo in Europa si era innescata.

La class action di Altroconsumo sul Dieselgate

Nel maggio del 2017, il Tribunale di Venezia ha dichiarato ammissibile l’azione collettiva sul Dieselgate avanzata da Altroconsumo. L’associazione dei consumatori ha sostanzialmente messo insieme le rimostranze di molti automobilisti italiani, chiedendo a Volkswagen un risarcimento pari al 15% del valore d’acquisto delle automobili finite sotto inchiesta.

Nel luglio 2021 il Tribunale di Venezia ha condannato il colosso tedesco a pagare complessivamente oltre 100mila euro per i 63mila consumatori ammessi alla class action. Fino ad un importo massimo di circa 3mila euro a testa. Nel febbraio 2022 Volkswagen ha deciso di ricorrere in appello.

Com’è cambiata la mobilità dopo il Dieselgate

A distanza di anni è ancora difficile comprendere come si passò da un Volkswagen-Gate a un Dieselgate, ovvero, come fu possibile trascinare nello scandalo i più noti marchi dell’auto europei.

Ai tempi era palpabile una certa insoddisfazione americana, soprattutto nei confronti di una bilancia commerciale, riguardante il mercato dell’auto, decisamente sbilanciata verso i produttori tedeschi ed europei e verso una politica energetica tedesca che, in quegli anni, aveva già raddoppiato la propria dipendenza dalla Russia, con effetti ancora tangibili sui mercati europei dell’energia. Specie dopo lo stop forzato alle importazioni di gasolio da Mosca.

Dall’altro lato, invece, non va trascurata l’emersione di un nuova coscienza ambientale e il ruolo cruciale che la sostenibilità ha assunto nella società contemporanea, al punto da portare l’Europa a bloccare l’immatricolazione delle auto diesel e benzina entro il 2035.

Nel corso dell’ultima edizione del Salone dell’Auto di Monaco è emerso che il settore punta sullo sviluppo delle auto elettriche e sull’impulso che le nuove tecnologie possono offrire per  implementare i servizi alla mobilità in chiave sempre più sostenibile.