In opposizione alla visione dominante dei rifiuti imposta dalla società dei costumi, il riciclaggio è diventato un elemento fondamentale di diversi movimenti di arte e design che lo promuovono come fondamento estetico e identitario. Si tratta di un gesto rivoluzionario sia dal punto di vista etico, sia per quanto riguarda l’estensione della nostra categoria di bellezza. Guardando al momento storico che stiamo attraversando, infatti, il gesto del riuso può diventare un modo di raccontarci, oltre che un tentativo di opposizione a un sistema deleterio che si è già mostrato in tutta la sua nocività.

Quando viene risollevato il dibattito sulla distinzione tra cultura e natura nel definire la posizione dell’uomo rispetto al suo ambiente, c’è una componente che continuiamo a tagliare fuori, anche se oggi, a diversi livelli della nostra esperienza, è proprio quella che sta rendendo sempre più labile il confine che le separa: i rifiuti. Oltre a rappresentare la destinazione necessaria di qualsiasi cosa consumiamo, infatti, la spazzatura è un elemento ormai antropico onnipresente in natura, in cui compare sia sotto forma di rifiuti sparsi nel paesaggio, sia di tracce meno tangibili come quelle delle microplastiche, che penetrano sempre più in profondità i luoghi e addirittura i nostri corpi.

Viviamo in quella che gli antropologi hanno definito “the Waste Age” (l’epoca degli scarti), in cui i rifiuti ci disturbano perché eccessivamente voluminosi, nocivi, durevoli – e quindi difficili da smaltire –, eppure continuiamo a fingere di non vederli. Al contrario, proprio per il modo in cui gli scarti che produciamo invadono la nostra vita, determinando la nostra attuale esperienza del mondo ma anche lo spazio che questa avrà in futuro, essi rappresentano, insieme al loro potenziale riutilizzo, qualcosa di estremamente significativo, come hanno dimostrato diversi movimenti artistici tra cui la cosiddetta “trash art” o waste art.

Al di là delle leggi del consumo

A fare nutrire questo movimento sono autori come lo statunitense Erik Jensen, con i suoi mosaici fatti di lettere e numeri recuperati da vecchie tastiere di computer; o il greco Nickos Floros che ha realizzato decine di sculture e oggetti di design utilizzando vuoti di lattine di alluminio; o ancora artisti che creano installazioni con rifiuti legnosi recuperati dalle discariche; assemblages che raccolgono biglietti di autobus, tessere, tessuti di diverse texture; e quadri i cui colori sono dati da quelli degli imballaggi di plastica di cui si compongono. Queste opere hanno saputo raccogliere le suggestioni di movimenti artistici come il Nuovo Realismo o l’Arte Povera, che tra gli anni Sessanta e Settanta hanno denunciato il sistema di consumo e spreco da cui ancora oggi non riusciamo a emanciparci, nonostante già oltre sessant’anni fa lasciasse intuire la pericolosità dei suoi effetti a lungo termine. Trasformando l’etica che fonda il riciclaggio in una forma d’arte, infatti, la trash art è diventata un tentativo di opposizione alla cultura “dell’usa e getta” su cui si è basato per decenni il nostro modello socioeconomico, sensibilizzando il pubblico sul suo impatto soprattutto a livello ambientale.

In opposizione alla visione dominante dei rifiuti imposta dalla società dei consumi, questa particolare modalità espressiva li mette al centro di una declinazione dell’arte contemporanea che ha a che fare con una ricerca sul concetto di conversione, e che mira a generare nuove configurazioni di senso a partire da oggetti che sembravano aver ormai esaurito la loro funzione. Sfilando gli scarti dalle logiche dell’utilità – o meglio dell’inutilità – a cui tendiamo ad assoggettarli, gli artisti della trash art si impegnano a rivelarne il potenziale e in un certo senso la bellezza, mostrando come questa possa scaturire anche da un gesto etico come quello del riciclaggio.

Se non possono durare, possono cambiare

Gli esseri umani hanno sempre prodotto del materiale di scarto. Ma ciò che la trash art dimostra è che gli scarti diventano rifiuti solo se non vengono metabolizzati in modo significativo. Queste opere, infatti, ci mettono di fronte a una profonda trasformazione delle cose di cui vorremmo liberarci, quelle che siamo soliti buttare via, mostrando quanto queste, pur non essendo state costruite per durare, a causa di una impasse del sistema produttivo a cui appartengono, abbiano sempre la possibilità di cambiare – forma o destinazione –, e in un certo senso di “rivivere”, quando le guardiamo da un punto di vista diverso rispetto a quello a cui siamo abituati.

Il riciclaggio come forma d’arte ci mostra come ogni oggetto che ci passa tra le mani sia un elemento connesso al resto mondo, che quindi può avere diverse possibili conseguenze su di esso, in base al modo in cui decidiamo di guardarlo e di trattarlo, dall’acquisto allo smaltimento. In questo senso, la sensibilità che anima la trash art permette agli scarti di oltrepassare il nostro rifiuto nei loro confronti, inserendoli nella narrazione del nostro presente per ritrarlo fedelmente, senza zone di censura, così da risvegliare una consapevolezza rispetto alle conseguenze di un consumismo fuori controllo, che è quanto mai necessario arginare.