Negli ultimi anni le atlete del calcio femminile hanno iniziato a minare i pregiudizi e gli stereotipi di genere da sempre legati a questo sport, dimostrando come le loro performance, il livello agonistico e le grandi competizioni di cui sono protagoniste non abbiano niente da invidiare alla controparte maschile. Passando per i successi sportivi, le calciatrici hanno conquistato una visibilità mediatica sempre maggiore, avvicinando così il loro pubblico anche a delle battaglie fondamentali dal punto di vista politico e sociale, in una vera e propria opera di sensibilizzazione e attivismo. Giovedì 20 luglio è intanto iniziato il campionato del Mondo in Nuova Zelanda, può essere un’altra spallata al pregiudizio.
Tra pregiudizi più difficili da estirpare dalle nostre abitudini di pensiero c’è quello per cui tendiamo ad appellarci a una sorta di istinto “naturale”, una componente innata che dovrebbe determinare le nostre caratteristiche personali e addirittura alcuni dei nostri comportamenti a partire dai cromosomi sessuali. Anche quando non cadiamo nelle stereotipizzazioni più banali tra quelle legate al genere, infatti, fatichiamo ad accettare che le nostre caratteristiche psicologiche e comportamentali derivino da un incontro di variabili ben più complesso, stratificato e imprevedibile di un dato biologico, da cui non potremmo mai ricevere una risposta soddisfacente sull’insieme delle qualità che ci rendono chi siamo, o sul perché abbiamo sviluppato un’abilità piuttosto che un’altra.
Questa logica fuorviante, che estende impropriamente delle differenze biologiche ad altre dimensioni della nostra identità, contribuisce in larga parte ad alimentare gli stereotipi di genere, soprattutto per quanto riguarda alcune aree della nostra esperienza. Non è dunque un caso che proprio dai terreni maggiormente attraversati dal pregiudizio stiano scaturendo tentativi di sovversione che mirano al raggiungimento dell’uguaglianza tra uomini e donne. Nel calcio femminile, per esempio, le istanze mosse dalle atlete hanno innescato questo tipo di trasformazione, scardinando i meccanismi di un sistema iniquo, considerato di dominio esclusivamente maschile.
Storie individuali e battaglie collettive
Nonostante il calcio sia da sempre visto come uno sport da uomini, a partire dai Mondiali Femminili del 2019 anche le imprese sportive delle calciatrici hanno acquisito sempre più successo e visibilità mediatica. Ad alimentare questa nuova attenzione è stata soprattutto l’abilità che le atlete hanno dimostrato nel veicolare tematiche fondamentali dal punto di vista politico e sociale, rendendole parte integrante della performance sportiva, dell’adrenalina, dello spettacolo di cui erano protagoniste. Le atlete, tramite i loro profili social, sono infatti riuscite a costruire una narrazione dell’evento e del loro rapporto con il calcio che pur rimanendo concentrata su temi di uguaglianza imprescindibili, ha ampliato la prospettiva sul tema, trasmettendo al pubblico una serie di suggestioni che spesso tendiamo ancora ad allontanare dalla nostra visione stereotipata.
Parlando di sana – ma accesa – competizione, della rabbia che segue una partita persa o della sensazione di invincibilità che si prova segnando l’ultimo rigore, le calciatrici hanno dato spazio a queste emozioni intense e per certi versi aggressive, che tendono a essere epurate dalle rappresentazioni standardizzate della figura femminile, ma che invece sono proprio quelle che creano un forte senso di appartenenza tra gli appassionati di sport. Il modo diretto e spontaneo con cui figure come Barbara Bonansea, Vivianne Miedema o Megan Rapinoe si sono sapute raccontare ha dunque provato quanto il pubblico sia sensibile alle storie individuali, impossibili da incasellare, avvicinandosi così alle battaglie sui diritti delle atlete.
Lo sport come strumento di emancipazione
La rivoluzione comunicativa delle calciatrici ha permesso di rivalutare la componente di attivismo insita nel calcio femminile, che è stata spesso percepita dal senso comune come una sorta di rattoppo per sopperire alle presunte mancanze agonistiche che renderebbero le competizioni tra donne meno interessanti di quelle maschili – e dunque bisognose di un elemento culturale a cui allacciarsi per far parlare di sé. Così, alla maggiore presa sull’attenzione degli spettatori è corrisposta anche una mobilitazione su temi quali il professionismo – che alle calciatrici italiane è stato riconosciuto solo ad aprile dello scorso anno, e che molte altre atlete (e atleti) ancora non hanno – o la disparità salariale, che negli Stati Uniti è stata definitivamente appianata rispetto agli atleti uomini a febbraio 2023.
Nonostante ci sia ancora molto da lavorare su questi aspetti, i primi effetti positivi in ambito calcistico sembrano poter dare origine a un movimento più ampio, che coinvolga lo sport in generale, ma anche la stessa società, soprattutto per quanto riguarda la percezione della donna nell’immaginario collettivo. In un contesto sociale in cui le disuguaglianze sono ancora più che mai radicate è infatti necessario formulare delle narrazioni del femminile che fuggano dai nostri automatismi di pensiero errati, per interrompere il loro replicarsi. Da questo punto di vista lo sport può essere un importante veicolo di emancipazione, perché promuove valori di inclusione, cooperazione e rispetto tra pari, ma soprattutto permette di associare anche le donne a una sfera emotiva che spesso viene loro preclusa, e che ancora non vengono educate a coltivare.