Partendo dai dilemmi etici posti dall’implementazione delle innovazioni tecnologiche nelle città, è possibile pensare un modello opposto, utopico, in cui la digitalizzazione e la connettività servono ad adattare lo spazio della smart city a chi lo abita. È possibile, infatti, plasmare il ritmo delle città sulle diverse necessità dei cittadini – a partire dai trasporti, dalle strutture pensate per le persone con disabilità o dalle app che si usano per accedere ai vari servizi – creando così un’esperienza dei luoghi che non è omologante, ma altamente personalizzata – oltre che sostenibile.

Ogni epoca del passato, seguendo percorsi diversi, ha elaborato un proprio concetto di città ideale, provando ad immaginare la conformazione di questo luogo perfetto e individuando le esigenze collettive a cui avrebbe risposto, ma soprattutto interrogandosi sull’effettiva realizzabilità di questi progetti. Gli esempi sono numerosi: a partire dalla Kallipolis greca, la città-stato in cui Platone si auspicava di veder convergere il bene comune – inteso come raggiungimento della giustizia sia politica che sociale – con la felicità del singolo; fino al modello rinascimentale, caratterizzato da un preciso piano urbanistico i cui i criteri di razionalità erano ritenuti in grado di garantire il prosperare pacifico di una comunità – e che ha visto dei celebri tentativi di realizzazione, come nel caso di Pienza, in Toscana.

Tutti questi progetti miravano al raggiungimento del benessere collettivo, partendo dall’idea tutt’altro che banale per cui il luogo in cui una comunità vive è fondamentale nel determinarlo, quando veicola dei valori positivi in cui le persone si riconoscono e da cui traggono beneficio. Se guardiamo al presente, il progresso tecnologico sembra però aver creato una cesura in questo filone immaginativo, dato che come ci insegnano molti racconti di fantascienza, tendiamo a vedere le smart cities, o qualsiasi altro modello di “città del futuro”, come un luogo potenzialmente pericoloso, quasi una realtà distopica. Per godere dei loro vantaggi, sia a livello ambientale sia per la qualità della nostra vita, dobbiamo invece riscoprire le smart city come “città ideali” della nostra epoca.

Città del futuro e dilemmi etici

Questo timore di fondo è determinato soprattutto dal rapporto ambivalente che è venuto a crearsi tra essere umano e tecnologia. Se da un lato le innovazioni tecnologiche hanno esteso enormemente le potenzialità umane, migliorando la nostra vita in molti ambiti, dall’altro lato ci stiamo rendendo sempre più conto di quanto il loro impatto sia difficile da controllare – sia per quanto riguarda l’effetto che hanno su di noi, sia per la loro regolamentazione a livello legale. Siamo dunque spaventati dalla possibilità che la tecnologia arrivi a plasmarci più di quanto vorremmo, finendo così per adattare la nostra vita ai suoi standard (inevitabilmente insostenibili per noi), quando invece dovrebbe accadere il contrario.

Anche le smart city sollevano alcuni di questi dilemmi, al contempo etici e legali, che riguardano in particolare la libertà dell’individuo e la tutela della sua privacy. Ne è un esempio la città di Songdo, in Corea del Sud, resa invivibile dagli schermi e dai sensori che costellano lo spazio urbano, tracciando tutti i movimenti dei cittadini. Questi elementi minacciano di assoggettare le nostre vite alla tecnologia, perché le riducono a un flusso di dati che non sempre vengono raccolti per aumentare il benessere delle persone, ma anche per renderle più produttive o per controllarle. Per evitare questo rischio, le smart cities devono dunque essere costruite e regolamentate secondo un principio che, nel corso della storia, è sempre stato al centro del concetto di città ideale: prendere l’essere umano, i suoi fini e il suo benessere come misura unica su cui modellare tutto il resto.

L’uomo come unico metro di misura

Le potenzialità tecnologiche delle smart city, quando utilizzate per assecondare i vari scopi e movimenti dei cittadini, e non per controllarli, contribuirebbero a costruire un’esperienza su misura, che tiene conto delle esigenze di ognuno loro, oltre che della sostenibilità ambientale – come avviene nell’eco-quartiere di Plaines-du-Loup, a Losanna; o nella città carbon-free costruita pochi anni fa vicino all’aeroporto di Oslo. A partire dalla flessibilità dei trasporti, dalle strutture pensate per le persone con disabilità o per le necessità delle donne, fino ad arrivare alle app con cui accedere ai servizi urbani, vivere in una smart city può diventare un’esperienza tutt’altro che omologante. Al contrario, essa risulterà altamente personalizzata, e quindi “ideale” nel senso più pieno del termine: utile ad aumentare il benessere individuale, ma anche a raggiungere un’equità e una giustizia, perché in teoria dà la stessa possibilità a tutti.

Tenendo presente che rendere una città più “umana” – e quindi vivibile – significa adattare le sue strutture a bisogni diversi, e non a un modello precostituito da applicare indistintamente, costringendo le persone a rientrarvici, le smart city possono renderci l’unità di misura dello spazio in cui viviamo, adattando anche la tecnologia al nostro ritmo vitale e a quello del pianeta. Recuperare il concetto di città ideale in un momento storico in cui disponiamo davvero degli strumenti tecnologici che consentirebbero di realizzarla – ma anche di trasformarla nel suo opposto – è dunque necessario per costruire nuovi spazi orientati al bene comune, inteso come forza che coinvolge una comunità, la qualità di vita dei suoi membri, e in questo caso anche la tutela dell’ambiente.