Viviamo in un’epoca in cui il corpo ha perso la sua centralità. La distanza che abbiamo posto tra noi e la nostra fisicità – non siamo più un corpo, ma abbiamo un corpo – ci permette di concepirlo quasi come sola estensione.
In un momento in cui più lo si esamina e lo si esibisce, meno sembra esistere, il nostro corpo radiografato, analizzato e fotografato è paradossalmente diventato solo uno spazio neutro tra i tanti che ci sono nel mondo, da espandere, abitare o negare a nostro piacimento.
Riappropriarci della nostra fisicità oggi è diventata una priorità, e a giocare un ruolo cruciale in questo processo è anche la pratica sportiva, che ci dà modo non solo di conoscere il nostro corpo recuperando la fondamentalità del suo ruolo, ma ci aiuta soprattutto a migliorare la nostra esperienza del mondo e a diventare consapevoli dei nostri limiti, per imparare a farci i conti. Lo sport, infatti, è fatto anche di traguardi da tagliare, di tempi da superare, di record da battere e questo costante tentativo di sondare le potenzialità del corpo umano, anche quando non porta ad alcuna vittoria, consente di esplorare in profondità ciò che siamo, tracciando la linea del nostro miglior risultato in un punto, per poi cancellarla e spostarla più avanti, ogni volta che scopriamo un’abilità nuova.
Imparare il rapporto con i propri limiti
La montagna è il luogo simbolo della sfida dei limiti umani, perché l’atleta che arrampica, scia o fa trekking in vetta viene messo di fronte a una verticalità e a un’imponenza tali da fare riflettere sulla proporzione – o meglio sulla sproporzione – che esiste tra la grandezza delle lingue di roccia che compongono le catene montuose e la dimensione umana, infinitamente più piccola. La stessa idea della scalata, comune a tutti gli sport di montagna, è un invito a sentire il proprio corpo per spingerlo sempre più avanti fino a raggiungere la cima. Non è un caso che le imprese dei più grandi alpinisti non siano considerate soltanto per il loro valore sportivo, ma come delle vere e proprie avventure, dei gesti eroici che hanno a che fare con un forte desiderio di auto-superamento.
Basti pensare che lo sci alpino è uno degli sport in cui si raggiungono le velocità più elevate. Il record mondiale maschile, infatti, è di circa 255 km/h e appartiene all’italiano Ivan Origone, un risultato sorprendente, che fa pensare a quanto questo sport sia in grado di insegnare a gestire l’adrenalina, ad avere un rapporto bilanciato con le proprie paure. Sciare, inoltre, è un’attività che migliora spontaneamente la capacità di sentire il corpo, attraverso lo sviluppo dell’equilibrio e della coordinazione. Per quanto riguarda la disciplina dell’arrampicata, invece, chi decide di affrontare una parete mette in discussione il rapporto che ha con la sua fisicità prima di qualsiasi altra cosa, perché sa che dovrà gestire condizioni estenuanti a livello fisico a partire dallo sforzo della scalata, la fame, il freddo, la solitudine, in un’esplorazione a tutto tondo delle proprie forze.
Aprire un dialogo con se stessi che condurrà fino in cima
La riappropriazione del corpo che passa per lo sport, nel caso delle attività in montagna, è strettamente legata anche alla possibilità di avere a che fare con il paesaggio, che si configura come un elemento attivo, un soggetto vivente con cui entrare in relazione. Il trekking alpino è un dialogo con la montagna a tutti gli effetti, che permette di entrare in contatto con i propri sensi, ma anche con la fatica e il sudore, valutando passo dopo passo se il nostro corpo riesce a procedere, a continuare a salire per arrivare a godersi la vista dall’alto. In questo senso, lo sport permette di uscire dall’ossessione del superamento del limite, spostando la concentrazione su quelli che sono i propri limiti, quelli che riguardano il proprio corpo, per scoprire quanto possa esserne vasto l’orizzonte.
Il potere terapeutico dello sport e della montagna sul rapporto che abbiamo con una fisicità ormai quasi perduta del tutto, è frutto della creazione di una dimensione priva di distrazioni: la vastità degli spazi, il silenzio, la solitudine, i tempi della salita e la contemplazione del panorama costituiscono una parentesi che ci permette di concentrarci soltanto su di noi, su quello che sentiamo. In questo modo, si potrà recuperare la centralità del corpo attraverso delle impressioni pure, che percepiamo come realmente nostre perché non sono state viziate da alcuna distanza imposta e il corpo tornerà a essere uno spazio fortemente connotato, riconoscibile, impossibile da confondere con gli altri.